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L’appalto è un contratto disciplinato all’art. 1655 del Codice Civile e, come ogni altro contratto, può essere sciolto tramite lo strumento della risoluzione del contratto di appalto.
La risoluzione del contratto, infatti, che può avvenire giudizialmente o di diritto, costituisce la prima causa di estinzione del contratto ed è disciplinata all’articolo 1453 del Codice Civile.
Quali sono i motivi che potrebbero portare, allora, i contraenti a chiedere la risoluzione del contratto di appalto?
In questo articolo cercheremo di illustrarli.
1. Cos’è il contratto di appalto
Il contratto di appalto è disciplinato, come accennato, all’art. 1655 del Codice civile ed è così descritto.
“L’appalto è il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro.“
Da tale norma si evince che il contratto di appalto è un contratto a prestazioni corrispettive a effetti obbligatori e si distingue dalla vendita perche non ha ad oggetto un dare, ma un fare.
Altresì, non è un contratto di lavoro autonomo perché l’appaltatore deve essere un imprenditore dotato di appositi mezzi. Organizza i mezzi necessari e sopporta il rischio. Su di lui grava un’obbligazione di risultato oltre che la realizzazione dell’opera.
Si distingue tra appalto d’opera e di servizi: il primo concerne, ad esempio, la costruzione di un ospedale, il secondo il servizio di catering prestato agli aerei o treni.
2. Cause di risoluzione del contratto di appalto
Le cause che portano alla risoluzione del contratto di appalto sono molteplici.
È bene analizzarle singolarmente.
2.1. Risoluzione del contratto di appalto per inadempimento
La regola generale della risoluzione del contratto è dettata all’art. 1453 del codice civile.
“Nei contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.“
Dunque, essendo il contratto di appalto a prestazioni corrispettive, questo può essere sciolto per inadempimento.
Abbiamo detto che la risoluzione può essere giudiziale o di diritto.
Quella descritta dalla norma è di natura giudiziale, mentre, se si inserisce nel contratto una clausola risolutiva espressa, allora la risoluzione del contratto avviene di diritto.
Un’altra causa di risoluzione di diritto del contratto è disciplinata all’art. 1457 del codice civile.
Infatti, se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra e se quest’ultima non esige l’esecuzione della prestazione nonostante la scadenza del termine, il contratto è risolto di diritto.
Come si desume dall’art. 1455 del codice civile, l’inadempimento non deve essere di scarsa importanza. Dunque deve essere grave in riferimento all’interesse della controparte.
L’inadempimento può poi riguardare l’appaltatore o il committente.
2.1.1. Inadempimento del committente
Innanzitutto, come si può facilmente intuire, il committente è tenuto al pagamento dell’opera commissionata all’appaltatore così come stabilito nel contratto.
Ovviamente, nel caso in cui il committente non adempisse alla sua obbligazione principale, l’appaltatore può agire in giudizio per chiedere il pagamento del corrispettivo dimostrando che l’esecuzione dell’opera è avvenuta conformemente a quanto pattuito nel contratto.
In questo caso la risoluzione del contratto può essere chiesta solo quando il mancato pagamento comporta un effettivo pregiudizio all’appaltatore.
2.1.2. Inadempimento dell’appaltatore
L’art. 1662 del codice civile disciplina la prima forma di inadempimento dell’appaltatore.
Infatti, il committente ha diritto di controllare lo svolgimento dei lavori e se si accerta che l’esecuzione dell’appaltatore non procede secondo le condizioni stabilite dal contratto, il committente fissa un termine entro il quale l’appaltatore deve conformarsi a tali regole.
In sostanza, il committente può intimare all’appaltatore una diffida ad adempiere.
In tema di diffida ad adempiere, la Corte di Cassazione (sentenza n.15052 dell’11/06/2018), precisa che si tratta di uno strumento offerto dal diritto italiano per una celere risoluzione del contratto cosicchè il contraente adempiente possa provvedere con altri mezzi alla realizzazione del suo interesse negoziale.
Se non avviene, il contratto è risolto.
La risoluzione del contratto di appalto può anche avvenire se si verifica la condizione prevista dall’art. 1668 del codice civile.
A norma di tale articolo, il committente può chiedere che le difformità o i vizi siano eliminati a spese dell’appaltatore oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito.
Se però le difformità e i vizi rendono l’opera del tutto inadatta alla sua destinazione, il committente può chiedere la risoluzione del contratto.
Altre ipotesi di inadempimento dell’appaltatore sono, ad esempio, la mancata esecuzione dell’opera, il realizzo parziale o tardivo, il rifiuto della consegna.
Tali casi differiscono dalle fattispecie appena analizzata che richiede, infatti, che l’esecuzione dell’opera sia portata a termine.
Ovviamente, sarà il committente a dover fornire le prove dei vizi e delle difformità poste a fondamento della sua richiesta di risolvere il contratto.
Un’altra causa di risoluzione del contratto per inadempimento si ha nel caso di mancato rispetto delle tempistiche di esecuzione dei lavori.
In questo caso la domanda giudiziale di risoluzione deve essere presentata in corso d’opera e non quando quest’ultima sia portata a compimento.
2.2. La risoluzione del contratto d’appalto per impossibilità sopravvenuta
L’art. 1672 del Codice civile disciplina l’ipotesi di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta.
La prestazione diventa impossibile da eseguire in conseguenza di una causa non imputabile ad alcuna delle parti. In verità, tale norma del codice civile tratta di una impossibilità parziale. Si legge infatti che “il committente deve pagare la parte dell’opera già compiuta , nei limiti in cui è per lui utile, in proporzione del prezzo pattuito per l’opera intera”.
Il concetto di utilità di cui parla la norma va inteso in senso relativo, poiché, naturalmente, si fa riferimento all’utilità propria di quel committente contraente e non un’utilità valida in maniera oggettiva per qualsiasi contraente.
2.3. Risoluzione del contratto d’appalto per fallimento di una delle parti
L’articolo 81 della Legge fallimentare (R.D. n. 267/1942) prevede un’ulteriore causa di risoluzione del contratto di appalto.
“Il contratto di appalto si scioglie per il fallimento di una delle parti, se il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori non dichiara di voler subentrare nel rapporto dandone comunicazione all’altra parte nel termine di giorni sessanta dalla dichiarazione di fallimento ed offrendo idonee garanzie”.
Si tratta di un’ ipotesi di risoluzione di diritto che opera automaticamente all’emanazione della dichiarazione di fallimento.
Non dà vita ad alcun tipo di risarcimento delle parti ed ha efficacia ex nunc, dunque non è retroattiva.
Dopo l’esecuzione della procedura concorsuale, le parti possono pattuire, comunque, un nuovo accordo.
Se al momento della dichiarazione di fallimento erano già state proposte domande di adempimento o di risarcimento del danno queste diventeranno improcedibili per via ordinaria e dovranno essere ammesse al passivo della procedura concorsuale.
2.4. Morte dell’appaltatore
L’articolo 1674 del codice civile stabilisce che il contratto d’appalto si risolve quando muore l’appaltatore, a una condizione.
“La considerazione della sua persona deve essere motivo determinante del contratto”.
Significa dunque che ad esempio il contratto si risolve perche l’opera era stata affidata a una persona fisica piuttosto che ad un’impresa o ad una società, le quali possono continuare nell’esecuzione dell’opera.
Se il contratto si risolve per tale causa, tuttavia, il committente deve corrispondere agli eredi dell’appaltatore un’indennità e un rimborso spese.
La prima dev’essere pari al valore delle opere eseguite (secondo il prezzo pattuito) e il secondo riguarda le spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, ma solo nei limiti in cui le opere eseguite e le spese sostenute gli sono utili.
3. Effetti della risoluzione
La regole generale sugli effetti della risoluzione del contratto è posta innanzitutto dall’articolo 1458 del codice civile.
Questo stabilisce la retroattività della risoluzione per inadempimento.
Nel contratto d’appalto dunque, la risoluzione, sia richiesta giudizialmente sia avvenuta di diritto, ha efficacia retroattiva fra le parti.
L’appalto è un contratto ad esecuzione prolungata e non continuata o periodica, dunque tale effetto si verifica.
C’è tuttavia un’eccezione.
Si considerino i contratti d’appalto ad esecuzione continuata o periodica.
Lo afferma il primo comma dell’articolo 1458: “salvo il caso di contratti ad esecuzione continuata o periodica, riguardo ai quali l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite”.
Altro effetto della risoluzione del contratto è il seguente.
Se la risoluzione deriva da inadempimento dell’appaltatore il committente non sarà più obbligato a pagare il prezzo e avrà, invece, diritto a chiedere la ripetizione delle somme già pagate con gli interessi.
Potrà chiedere anche la restituzione dei materiali forniti all’appaltatore per realizzare l’opera, se da lui stesso procurati, nella stessa forma e qualità.
3.1. Gli effetti della risoluzione dell’appalto in base al tipo di opera
Gli effetti della risoluzione del contratto si distinguono a seconda che l’opera data in appalto sia mobile o immobile.
Se l’opera data in appalto è mobile, l’appaltatore che l’ha già eseguita ne rimane proprietario.
Se l’appaltatore aveva già dato in consegna al committente l’opera data in appalto, quest’ultimo gliela deve restituire.
Il committente che aveva dato in appalto un bene immobile ha due possibilità.
Può scegliere, quando chiede la risoluzione, di demolire l’opera, se già eseguita, oppure di diventarne proprietario per accessione, istituto disciplinato all’art. 934 del Codice Civile.
4. La giurisprudenza rilevante della Corte di Cassazione in materia di risoluzione del contratto di appalto
Cass. civ. Sez. I Ord., 03/12/2021, n. 38188.
In tema di appalto di opere pubbliche, la domanda di risoluzione del contratto avanzata dall’appaltatrice per grave inadempimento dell’appaltante non presuppone la previa instaurazione della procedura di risoluzione in via amministrativa ex art. 23 r.d. n. 350 del 1985, sicché le pretese, oggetto delle riserve iscritte, concernenti maggiori compensi, rimborsi o indennizzi conseguenti l’invocata risoluzione, esulano dall’ambito dell’art. 42 del d.P.R. n. 1063 del 1962, cd. “Capitolato generale opere pubbliche” (attinente alle sole contestazioni tra appaltatrice e direttore dei lavori insorte nel corso dell’esecuzione dei lavori) e sono suscettibili di essere definite in sede giudiziale anteriormente alla decisione in via amministrativa sulle riserve iscritte, che di norma deve avvenire in sede di collaudo.
Cass. civ. Sez. I Ord., 11/09/2020, n. 18897.
In tema di appalti pubblici, in caso di ritardo nell’adempimento per fatto dell’Amministrazione appaltante, non trova applicazione la disciplina civilistica in materia di risoluzione del contratto bensì la norma speciale di cui all’art. 10, comma 8, del d.P.R. n. 1063 del 1962 (Capitolato generale di appalto delle opere pubbliche), che riconosce all’appaltatore la sola facoltà di presentare istanza di recesso dal contratto, al mancato accoglimento della quale consegue il sorgere del diritto al compenso per i maggiori oneri derivanti dal ritardo. La “ratio” della previsione é quella di assicurare all’Amministrazione la possibilità di valutare l’opportunità di mantenere in vita il rapporto, ovvero di adottare una diversa determinazione in vista dell’eventuale superamento degli originari limiti di spesa, in considerazione del fatto che all’appaltatore sarà dovuto il rimborso di “maggiori oneri”, a titolo indennitario, per avere egli esercitato la facoltà di recesso.
Cass. civ. Sez. II Sent., 22/10/2019, n. 26862.
Nei contratti ad esecuzione periodica o continuata, se l’effetto della risoluzione per inadempimento non si estende alle prestazioni già eseguite, in ogni caso la disposizione di cui all’art. 1458, comma 2, c.p.c., è invocabile solo se esse abbiano pienamente soddisfatto le ragioni del creditore e risultino conformi al contratto. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte d’appello che aveva respinto la domanda di risoluzione del contratto di appalto di servizi, ritenendola preclusa per effetto della esecuzione integrale del contratto, senza considerare che il rapporto non poteva considerarsi esaurito, stante la pendenza di contenziosi e di molteplici contestazioni circa l’esatto adempimento del contratto).
Cass. civ. Sez. II Ord., 24/01/2019, n. 2037.
In tema d’appalto, la domanda di riduzione del prezzo in presenza di difetti dell’opera può essere proposta, in luogo di quella originaria di risoluzione per inadempimento, sia nel giudizio di primo grado sia in quello d’appello, giacché, essendo fondata sulla medesima “causa petendi” e caratterizzata da un “petitum” più limitato, non costituisce domanda nuova. Infatti, all’appalto non può essere esteso il principio, dettato per la vendita dall’art. 1492, comma 2, c.c., dell’irrevocabilità della scelta, operata mediante domanda giudiziale, tra risoluzione del contratto e riduzione del prezzo; inoltre, nel caso di inadempimento dell’appaltatore, il divieto di cui all’art. 1453, comma 2, c.c. impedisce al committente, che abbia proposto domanda di risoluzione, di mutare tale domanda in quella di adempimento, ma non anche di chiedere la riduzione del prezzo.
Cass. civ. Sez. Unite Ord., 10/01/2019, n. 489.
In tema di appalti pubblici, sono devolute alla cognizione del Giudice amministrativo le controversie relative alla procedura di affidamento dell’appalto, mentre quelle aventi ad oggetto la fase di esecuzione del contratto spettano alla giurisdizione del Giudice ordinario, in quanto riguardanti un rapporto di natura privatistica caratterizzato dalla posizione di parità delle parti, titolari di situazioni giuridiche qualificabili come diritti ed obblighi. Tra queste controversie vanno annoverate quelle aventi ad oggetto la risoluzione anticipata del contratto autoritativamente disposta dall’Amministrazione committente a causa dell’inadempimento delle obbligazioni poste a carico dello appaltatore: anch’esse, infatti, attengono alla fase esecutiva, implicando la valutazione di un atto avente come effetto tipico lo scioglimento del contratto, e quindi incidente sul diritto soggettivo dell’appaltatore alla prosecuzione del rapporto; l’accertamento di tale diritto spetta al Giudice ordinario, mediante la verifica della legittimità dell’atto e dell’eventuale violazione delle clausole contrattuali da parte dell’Amministrazione, e ciò indipendentemente dalla veste formalmente amministrativa della determinazione adottata dalla committente, la quale non ha natura provvedimentale, nonostante il carattere unilaterale della risoluzione, che non cessa per ciò solo di operare nell’ambito delle posizioni paritetiche delle parti.
Cass. civ. Sez. VI – 2 Ord., 13/07/2018, n. 18578.
In tema di risoluzione del contratto per difformità o vizi dell’opera, qualora il committente abbia chiesto il risarcimento del danno in correlazione con la risoluzione e i vizi dell’opera non siano risultati tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, così da giustificare lo scioglimento del contratto, la richiesta risarcitoria non può essere accolta per mancanza dei presupposti della pretesa azionata, che si deve fondare sulla medesima “causa petendi” della domanda di risoluzione.
Cass. civ. Sez. Unite Ord., 09/04/2018, n. 8721.
In tema di appalto di opere pubbliche sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo le controversie derivanti dalle procedure di affidamento dei lavori, mentre per quelle che traggono origine dall’esecuzione del contratto non v’è alcuna deroga alla giurisdizione del giudice ordinario. Pertanto, ove l’accordo delle parti preveda l’impegno dell’impresa appaltatrice di accettare l’offerta di consegna anticipata dei lavori nelle more della stipula del contratto, allorché si discuta dell’inadempimento di quest’ultima rispetto a detto impegno e della risoluzione del rapporto (con conseguente incameramento della cauzione) dichiarata dalla stazione appaltante ai sensi del D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, art. 129, comma 7, siffatta controversia appartiene alla cognizione del giudice ordinario riguardando l’esecuzione del rapporto (sia pure anticipata rispetto alla piena efficacia dell’aggiudicazione stessa).
Cass. civ. Sez. II Ord., 04/07/2017, n. 16404.
In tema di appalto privato, il committente ha la facoltà di recedere ai sensi dell’art. 1671 c.c. Il detto recesso, prescindendo da eventuali inadempienze dell’altro contraente alle obbligazioni assunte, è esercitabile, a differenza del recesso ex articolo 1373 c.c., in un qualsiasi momento posteriore alla conclusione del contratto e, quindi, anche a esecuzione iniziata e determina un obbligo indennitario correlato alle perdite subite dall’appaltatore per le spese sostenute e i lavori eseguiti oltre che al mancato guadagno. Esso costituisce esercizio di un dritto potestativo e non esige, perciò, che ricorra una giusta causa, mediante esso il contratto si scioglie senza necessità di indagini sulla importanza e gravità dell’inadempimento, le quali sono rilevanti soltanto quando il committente abbia preteso anche il risarcimento del danno dall’appaltatore per l’inadempimento in cui questi fosse già incorso al momento del recesso.
Cass. civ. Sez. Unite Ord., 10/04/2017, n. 9149.
Appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la cognizione delle domande di risoluzione o di nullità di un contratto d’appalto pubblico perché rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto tutti gli atti della serie negoziale successiva alla stipulazione del contratto, cioè non solo quelle che attengono al suo adempimento e quindi concernenti l’interpretazione dei diritti e degli obblighi delle parti, ma anche quelle volte ad accertare le condizioni di validità, efficacia, nullità o annullabilità del contratto, siano esse inerenti o estranee o sopravvenute alla struttura del contratto, comprese quelle derivanti da irregolarità o illegittimità della procedura amministrativa a monte e le fattispecie di radicale mancanza del procedimento di evidenza pubblica o sussistenza di vizi che ne affliggono singoli atti, accertabili incidentalmente da detto giudice, al quale le parti possono rivolgersi senza necessità del previo annullamento da parte del giudice amministrativo. Dunque la controversia in tema di appalto pubblico, avente ad oggetto la valutazione di una clausola penale, la quale si configura come strumento di commisurazione del danno, comunque riducibile ove ecceda in misura palese dalla concreta entità del pregiudizio, e che presuppone l’esistenza dell’inadempimento, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto inerente ai diritti derivanti dal predetto contratto” come la controversia “relativa all’inadempimento degli obblighi di collaborazione nascenti dal contratto d’appalto.
Cass. civ. Sez. I, 17/01/2017, n. 973.
In tema di appalti di opere pubbliche, l’appaltatore può invocare la risoluzione del contratto stipulato con l’ente committente in base alle regole generali dettate per l’inadempimento contrattuale, senza che l’eventuale provvedimento di rescissione adottato successivamente dall’Amministrazione sia di ostacolo all’esame (ed all’eventuale accoglimento) della domanda risolutoria, non restando esclusa la giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie inerenti ai diritti ed agli obblighi scaturenti da un contratto di appalto di opere pubbliche per il fatto che il committente si sia avvalso della facoltà di rescindere il rapporto con proprio atto amministrativo ai sensi dell’art. 340 della legge n. 2248 del 1865, all. F, stante la inidoneità dell’atto autoritativo ad incidere sulle suddette posizioni soggettive, inerenti ad un contratto di natura privatistica.
Cass. civ. Sez. Unite Ord., 18/11/2016, n. 23468.
In tema di appalto di opere pubbliche, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia promossa dal cessionario del ramo di azienda per ottenere, oltre al risarcimento del danno, l’annullamento del provvedimento con cui la stazione appaltante ha rigettato, nel dichiarare la risoluzione di diritto dell’appalto, la richiesta di sostituzione della mandataria del raggruppamento temporaneo di imprese aggiudicatario di quest’ultimo, venendo in rilievo non l’esercizio di un potere autoritativo, che si manifesti attraverso atti di natura provvedimentale, a fronte dei quali la posizione soggettiva del privato si atteggia ad interesse legittimo, ma la mera verifica, a carattere vincolato e su basi di parità, che la vicenda soggettiva occorsa rientri in una della fattispecie in presenza delle quali soltanto, ai sensi dell’art. 116 del d.lgs. n. 163 del 2006, la controparte privata ha il diritto di subentrare nella titolarità del contratto. (Regola giurisdizione)
Cass. civ. Sez. I Sent., 16/03/2016, n. 5255.
In tema di appalto di lavori pubblici, il provvedimento dell’amministrazione che si risolve in sede amministrativa la controversia insorta tra il direttore dei lavori e l’appaltatore, ai sensi dell’art. 42 del d.P.R. n. 1063 del 1962, deve consistere in una manifestazione formale, necessariamente proveniente dall’amministrazione committente (e non dal direttore dei lavori o dal collaudatore), che esprima la presa d’atto di una controversia e la volontà di risolverla e che contenga una decisione definitiva, e cioè non di rinvio o comunque interlocutoria, della controversia.
Cass. civ. Sez. I Sent., 19/01/2016, n. 815.
In tema di appalto, non sussiste incompatibilità tra gli artt. 1667 e 1669 c.c., potendo il committente di un immobile che presenti “gravi difetti” invocare, oltre al rimedio risarcitorio del danno (contemplato soltanto dall’art. 1669 c.c.), anche quelli previsti dall’art. 1668 c.c. (eliminazione dei vizi, riduzione del prezzo, risoluzione del contratto) con riguardo ai vizi di cui all’art. 1667 c.c., purché non sia incorso nella decadenza stabilita dal comma 2 di quest’ultimo, dovendosi ritenere che, pur nella diversità della natura giuridica delle responsabilità rispettivamente disciplinate dalle anzidette norme (l’art. 1669 c.c., quella extracontrattuale, l’art. 1667 c.c., quella contrattuale), le relative fattispecie si configurino l’una (l’art. 1669 c.c.) come sottospecie dell’altra (art. 1667 c.c.), perché i “gravi difetti” dell’opera si traducono inevitabilmente in “vizi” della medesima, sicché la presenza di elementi costitutivi della prima implica necessariamente la sussistenza di quelli della seconda, continuando ad applicarsi la norma generale anche in presenza dei presupposti di operatività di quella speciale, così da determinare una concorrenza delle due garanzie, quale risultato conforme alla “ratio” di rafforzamento della tutela del committente sottesa allo stesso art. 1669 c.c.
Cass. civ. Sez. I Sent., 20/11/2015, n. 23813.
In materia di appalto di opere pubbliche, nel giudizio introdotto dall’appaltatore davanti al giudice ordinario nei confronti della stazione appaltante che abbia risolto unilateralmente ed autoritativamente il contratto, ai sensi dell’art. 340, comma 2, della l. n. 2248 del 1865, All. F, la valutazione giudiziale della legittimità dell’operato della P.A. o, comunque, del complessivo contegno delle parti deve essere condotta entro i limiti delle ragioni addotte e dei comportamenti dalle stesse posti in essere durante lo svolgimento della vicenda contrattuale, conclusa per effetto del provvedimento in autotutela, non essendo consentito – in ragione del principio dell’immutabilità della “causa petendi”, nonché dei suoi fatti costitutivi, anche quando è in contestazione la legittimità del provvedimento di rescissione – né alla P.A. di immutare le ragioni del provvedimento di rescissione, né all’appaltatore di modificare quelle addotte per contestarne la legittimità e neppure al giudice di sostituirle d’ufficio. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito per avere ritenuto legittimo il rifiuto dell’appaltatrice di dare esecuzione al contratto non già per l’allegata impossibilità sopravvenuta della prestazione, ma per la mai dedotta inesigibilità di questa in assenza della redazione della necessaria perizia di variante).
Cass. civ. Sez. II Sent., 04/03/2015, n. 4366.
In tema di risoluzione del contratto per difformità o vizi dell’opera, qualora il committente abbia domandato il risarcimento del danno in correlazione con la domanda di risoluzione e i vizi dell’opera non siano risultati tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, così da giustificare lo scioglimento del contratto, la domanda di risarcimento danni non può essere accolta per mancanza dei presupposti della pretesa azionata, che si deve fondare sulla medesima “causa petendi” della domanda di risoluzione.
Cass. civ. Sez. I Sent., 02/10/2014, n. 20811.
In tema di risoluzione del contratto (nella specie, appalto di opera pubblica), l’impossibilità sopravvenuta della prestazione è configurabile qualora siano divenuti impossibili l’adempimento della prestazione da parte del debitore o l’utilizzazione della stessa ad opera della controparte, purché tale impossibilità non sia imputabile al creditore ed il suo interesse a ricevere la prestazione medesima sia venuto meno, dovendosi in tal caso prendere atto che non può più essere conseguita la finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto, con la conseguente estinzione dell’obbligazione. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che la possibilità di eseguire l’opera commissionata fosse stata impedita dall’esistenza di un vincolo archeologico sull’area interessata dai lavori di costruzione di alloggi, conosciuto dal committente solo attraverso la concessione edilizia rilasciatagli dal comune, per effetto del quale la Soprintendenza aveva ordinato la sospensione dei lavori, disponendo, altresì, per la loro ripresa, prescrizioni tali che, se osservate, avrebbero determinato un rilevante aumento dei costi e la cospicua riduzione degli alloggi originariamente previsti).
Cass. civ. Sez. Unite Ord., 27/01/2014, n. 1530.
In tema di appalti di opere pubbliche, ove l’appaltatore agisca per la risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni, sul presupposto dell’illiceità del recesso operato dall’amministrazione in conseguenza delle verifiche disposte dal Prefetto ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252, deducendo l’avvenuto rilascio dell’informazione antimafia a sé favorevole, la controversia appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario poiché – avuto riguardo al criterio del “petitum” sostanziale – attiene all’esecuzione di un contratto di diritto privato, senza che venga in questione l’illegittimo esercizio di un potere amministrativo
Cass. civ. Sez. I Sent., 31/12/2013, n. 28812.
In tema di appalto, la domanda di restituzione della cauzione versata a garanzia della corretta esecuzione dell’opera non può considerarsi implicitamente contenuta in quella di risoluzione del contratto di appalto per colpa del committente o per eccessiva onerosità sopravvenuta, proposta in via riconvenzionale, essendo esse caratterizzate da un “petitum” e da una “causa petendi” diverse, sicché la prima, se proposta nel corso della fase istruttoria espletata in primo grado, si configura come domanda nuova, come tale inammissibile ai sensi dell’art. 183 cod. proc. civ. (nel testo, applicabile “ratione temporis”, risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 17 della legge 26 novembre 1990, n. 353), con conseguente inconfigurabilità del vizio, denunciato in sede di impugnazione, di omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado.
Cass. civ. Sez. II Sent., 06/04/2011, n. 7878.
Nei contratti a prestazione continuata o periodica (nella specie, l’appalto), la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento è alternativa alla domanda di accertamento dell’esercizio del recesso, distinguendosene per “causa petendi” e “petitum”, atteso che, mirando la prima a una pronuncia di carattere costitutivo che faccia risalire la risoluzione al momento dell’inadempimento ed essendo fondata sulla commissione di un illecito (mentre, l’altra, sull’esercizio di una facoltà consentita dalla legge), il suo accoglimento preclude l’esame delle altre cause di scioglimento del medesimo rapporto contrattuale. Ne consegue, ulteriormente, che tra dette domande non vi è rapporto di continenza, sicché possono essere proposte nello stesso giudizio, dovendo il giudice, in caso di rigetto delle domande di risoluzione, esaminare se sia fondata quella di declaratoria di legittimo esercizio del diritto di recesso.
Cass. civ. Sez. II Sent., 15/02/2011, n. 3702.
In tema di appalto, non sussiste incompatibilità tra le norme di cui agli artt. 1667 e 1669 cod. civ., nel senso che il committente di un immobile che presenti “gravi difetti” ben può invocare, oltre al rimedio risarcitorio del danno (contemplato soltanto dall’art. 1669), anche quelli previsti dall’art. 1668 cod. civ. (eliminazione dei vizi, riduzione del prezzo, risoluzione del contratto) con riguardo ai vizi di cui all’art. 1667, purché non sia incorso nella decadenza stabilita dal secondo comma dello stesso art. 1667. Infatti, quanto a struttura – diversamente da ciò che riguarda la diversa natura giuridica della responsabilità rispettivamente disciplinata dalle anzidette norme (l’art. 1669, quella extracontrattuale; l’art. 1667, quella contrattuale) – le relative fattispecie si configurano l’una (l’art. 1669) come sottospecie dell’altra (art. 1667), perché i “gravi difetti” dell’opera si traducono inevitabilmente in “vizi” della medesima, sicché la presenza di elementi costitutivi della prima implica necessariamente la presenza di quelli della seconda, con la conseguenza – non smentita dal alcun dato testuale, logico e sistematico – che la norma generale continua ad applicarsi anche in presenza dei presupposti di operatività della norma speciale, così da determinare una concorrenza delle due garanzie, quale risultato conforme alla “ratio” di rafforzamento della tutela del committente sottesa allo stesso art. 1669 cod. civ. Ne consegue, altresì, che non è dato ravvisare un contrasto dell’art. 1669 cod. civ. con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina posta dall’art. 1667 cod. civ. in tema di prescrizione, non patendo il committente alcun “deficit” di protezione per il fatto che i difetti dell’opera presentino il carattere di particolare gravità indicato dall’art. 1669 citato.
Cass. civ. Sez. I Sent., 16/06/2010, n. 14574.
In tema di appalto di opere pubbliche, l’opzione data all’appaltatore dall’art. 30 del d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063 di chiedere lo scioglimento del contratto senza indennità in caso di sospensione dei lavori, ed il conseguente diritto al risarcimento dei danni solo nel caso in cui l’Amministrazione si sia opposta a tale richiesta, si riferiscono esclusivamente all’ipotesi di sospensione disposta per ragioni di pubblico interesse o necessità (diversa da quella, contemplata nel primo comma della norma, della sospensione disposta per cause temporanee ostative alla prosecuzione dei lavori a regola d’arte) e limitatamente, inoltre, al caso in cui il protrarsi della sospensione sia legittimo, in quanto correlato al perdurare di quelle ragioni; tale disciplina, invece, non riguarda il caso di protrazione illegittima della sospensione, in quanto dovuta a fatto imputabile all’amministrazione committente, in tal caso tornando applicabile la normativa codicistica sull’inadempimento delle obbligazioni, da cui deriva il diritto dell’appaltatore ad una congrua proroga del termine per l’ultimazione dell’opera ed al rimborso delle maggiori spese, nonché i rimedi di carattere generale della risoluzione del contratto e del risarcimento del danno.
Cass. civ. Sez. I Sent., 05/06/2009, n. 12980.
Nell’appalto di opere pubbliche, la sospensione dei lavori, disposta dalla stazione appaltante ex art. 30 del d.P.R. 16 luglio 1962 n. 1063, per la sopravvenienza di una causa di forza maggiore, non può protrarsi illimitatamente, perchè si fonda sulla condizione della temporaneità dell’ostacolo sopraggiunto e sulla prospettiva di una ripresa dei lavori in un tempo ragionevole; per lo stesso motivo, non può qualificarsi come valida causa di cessazione della sospensione , l’ordine dell’Amministrazione di riprendere l’esecuzione dei lavori sulla base di una riduzione considerevole ed unilaterale del progetto iniziale che modifichi significativamente il contenuto del contratto. (Nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto legittimo il rifiuto di riprendere l’esecuzione dei lavori da parte dell’appaltatore ed ha confermato la sentenza di risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltante e di condanna al risarcimento del danno)
Cass. civ. Sez. Unite Sent., 16/04/2009, n. 8987.
Benché la P.A., nel suo operare negoziale, si trovi su un piano paritetico a quello dei privati, ciò non significa che vi sia una piena ed assoluta equiparazione della sua posizione a quella del privato, poiché l’Amministrazione è comunque portatrice di un interesse pubblico cui il suo agire deve in ogni caso ispirarsi; ne consegue che alla stessa è preclusa la possibilità di avvalersi, nella risoluzione delle controversie derivanti da contratti di appalto conclusi con privati, dello strumento del c.d. arbitrato irrituale o libero, poiché in tal modo il componimento della vertenza verrebbe ad essere affidato a soggetti (gli arbitri irrituali) individuati, nell’ambito di una pur legittima logica negoziale, in difetto di qualsiasi procedimento legalmente determinato e, perciò, senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità della scelta.
Cass. civ. Sez. I Sent., 05/03/2008, n. 5951.
In materia di appalto, una volta che sia intervenuta la pronuncia di risoluzione del contratto, non è più ravvisabile (neppure astrattamente) la possibilità di dare accoglimento alla domanda di revisione dei prezzi, la quale presuppone la vigenza del rapporto anzidetto e ne costituisce esecuzione, laddove la risoluzione ha effetti restitutori e liberatori, postulando il venir meno del contratto quale causa giustificativa delle prestazioni che già siano state eseguite e di quelle che, a titolo di corrispettivo, debbano ancora essere eseguite, nel cui novero va inclusa la corresponsione dei compensi revisionali.
Cass. civ. Sez. II Sent., 06/02/2008, n. 2800.
Nel contratto di appalto, la valutazione comparativa della condotta negoziale delle parti, effettuata ai fini dell’accertamento della fondatezza dell’eccezione d’inadempimento, non riguarda solo le obbligazioni principali dedotte nel contratto, consistenti nel pagamento del corrispettivo da parte del committente, e nel compimento dell’opera da parte dell’appaltatore, ma deve avere ad oggetto, anche quelle collaterali di collaborazione, quando il loro inadempimento da parte dell’obbligato, abbia dato causa a quello conseguente del creditore verso terzi. (Nella specie, la Corte, ha ritenuto fondata l’eccezione d’inadempimento formulata dal sub-committente perchè le palancature di contenimento delle fondazioni di un edificio, eseguite dal sub-appaltatore, avevano ceduto, cagionando danni ai proprietari degli immobili confinanti).
Cass. civ. Sez. I Sent., 29/11/2007, n. 24948.
In tema di appalto, il committente che, per difetti dell’opera, abbia esperito azione di risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltatore, può successivamente, sia in primo grado che in appello, modificare la domanda in quella di riduzione del prezzo. Infatti, non soltanto non è estensibile all’appalto il principio, dettato per la vendita dall’art. 1492, comma 2, cod. civ., dell’irrevocabilità della scelta, operata mediante domanda giudiziale, tra risoluzione del contratto e riduzione del prezzo; ma nel caso di inadempimento dell’appaltatore, il divieto posto dall’art. 1453, comma 2, cod. civ. impedisce al committente che abbia proposto domanda di risoluzione di mutare tale domanda in quella di adempimento, ma non anche di chiedere la riduzione del prezzo (domanda, questa, che non integra una domanda nuova rispetto a quella originaria di risoluzione perché fondata sulla stessa “causa petendi” e caratterizzata da un “petitum” più limitato).
Cass. civ. Sez. II, 15/01/2007, n. 738.
In un contratto a prestazioni corrispettive (nella specie, contratto di appalto), l’obbligazione restitutoria si fonda sul venir meno del contratto, quale causa giustificatrice delle reciproche prestazioni, e poichè l’azione a disposizione della parte non inadempiente (nella specie, l’appaltatore) per ottenere dalla controparte la restituzione di quanto dovutogli è quella di ripetizione di indebito oggettivo ex art. 2033 cod. civ., ne consegue che gli interessi sulle predette somme, di natura compensativa, sono dovuti dal momento della domanda, non essendo contestata la buona fede della committente.
Cass. civ. Sez. II, 20/04/2006, n. 9295.
In materia di appalto, la disciplina dettata dell’art. 1668 in tema di difetti dell’opera, in deroga a quella stabilita in via generale in tema di inadempimento del contratto, concede al committente la possibilità di domandare la risoluzione del contratto soltanto nel caso in cui i difetti dell’opera siano tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, mentre negli altri casi il committente può agire con le alternative azioni di eliminazione dei vizi o di riduzione del prezzo, soltanto nell’ottica del mantenimento del contratto. Pertanto, nel caso in cui il committente abbia domandato il risarcimento del danno in correlazione con la domanda di risoluzione e i difetti non siano risultati tali da giustificare lo scioglimento del contratto, la domanda di risarcimento non può essere accolta per difetto della “causa petendi”.
Cass. civ. Sez. I, 20/01/2006, n. 1183.
Gli arbitri autorizzati a pronunciare secondo equità sono svincolati, nella formazione del loro giudizio, dalla rigorosa osservanza delle regole del diritto oggettivo, avendo facoltà di far ricorso a criteri, principi e valutazioni di prudenza e opportunità, che appaiano i più adatti e i più equi, secondo la loro coscienza, per la risoluzione del caso concreto, con la necessaria conseguenza che resta preclusa, ai sensi dell’art. 829, comma secondo, ultima parte, cod. proc. civ., l’impugnazione per nullità del lodo di equità per violazione delle norme di diritto sostanziale, o in generale per “errores in iudicando” che non si traducano nell’inosservanza di norme fondamentali e cogenti di ordine pubblico, dettate a tutela di interessi generali e perciò non derogabili dalla volontà delle parti nè suscettibili di formare oggetto di compromesso. (Nella specie era stato impugnato per nullità un lodo di equità che aveva ridotto l’entità delle penali applicate da una P.A. non statuale appaltante, in relazione alle quali l’impresa appaltatrice non aveva formulato tempestive riserve ai sensi del r.d. n. 350 del 1895, richiamato dal capitolato generale di appalto per le opere pubbliche, approvato con il d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, cui le parti avevano fatto riferimento per regolare il rapporto di appalto fra loro negozialmente costituito; la corte d’appello aveva accolto l’impugnativa, sul rilievo che il rinvio effettuato in contratto al capitolato generale di appalto per le opere pubbliche aveva prodotto l’effetto di rendere comunque cogenti e inderogabili le norme richiamate, comportando non solo l’obbligo del loro rispetto nella decisione della controversia ma anche la censurabilità del lodo che se ne era discostato. In applicazione del principio sopra massimato, il Supremo Collegio ha riformato la sentenza della corte territoriale e, decidendo nel merito, ha dichiarato inammissibile l’impugnativa per nullità del lodo di equità, rilevando che la previsione contrattuale per cui la decisione della controversia doveva avvenire in base a regole equitative implicava la possibilità per gli arbitri di prescindere dalla normativa speciale e in particolare dagli artt. 54 r.d. n. 350 del 1895 e 26 d.P.R. n. 1063 del 1962 – norme non imperative nè di ordine pubblico, attenendo a materia di diritti patrimoniali disponibili – prescriventi la formulazione, a pena di decadenza, delle riserve nel conto finale dei lavori e nel certificato di collaudo).
Cass. civ. Sez. II, 20/07/2005, n. 15249.
In tema di appalto, la disciplina relativa alle difformità e ai vizi dell’opera dettata dall’art.1668 cod. civ., in deroga a quella stabilita in via generale in materia di inadempimento del contratto, concede al committente la possibilità di domandare la risoluzione del contratto soltanto nel caso in cui i difetti dell’opera siano tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, mentre negli altri casi egli può agire con le alternative azioni di eliminazione dei vizi o di riduzione del prezzo fermo restando il mantenimento del contratto. Qualora il committente abbia domandato il risarcimento del danno in correlazione con la domanda di risoluzione e i difetti non siano risultati tali da giustificare lo scioglimento del contratto, la domanda di risarcimento non può essere accolta, non sussistendo le circostanze poste a base della pretesa azionata, che evidentemente presuppone la stessa “causa petendi” che è posta a base della domanda di risoluzione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23/04/2004, n. 7729.
In tema di inadempimento di un’obbligazione contrattuale, la causa non imputabile che esclude la responsabilità del debitore, si ha quando l’inadempimento è determinato da un impedimento oggettivo e non dall’erronea convinzione del debitore di non dovere adempiere, non essendo sufficiente la buona fede circa la propria condotta, se questa non coincida con l’esaurimento di tutte le possibilità di adempiere secondo la normale diligenza.(Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata secondo la quale l’impresa obbligatasi ad assumere i dipendenti esistenti nell’organico dell’impresa nel cui appalto era subentrata, risultanti da documentazione probante, doveva, usando la normale diligenza, accertare i dipendenti nel relativo organico attraverso la documentazione aziendale, e in particolare i libri aziendali e le buste paga, non rilevando che l’impresa precedente avesse comunicato i nominativi dei dipendenti omettendone uno invece risultante dalla documentazione predetta).
Cass. civ. Sez. II, 15/03/2004, n. 5250.
Ai fini della risoluzione del contratto di appalto per i vizi dell’opera si richiede un inadempimento più grave di quello richiesto per la risoluzione della compravendita per i vizi della cosa, atteso che, mentre per l’art. 1668 c.c., secondo comma, la risoluzione può essere dichiarata soltanto se i vizi dell’opera sono tali da renderla del tutto inidonea alla sua destinazione, l’art. 1490 c.c. stabilisce che la risoluzione va pronunciata per i vizi che diminuiscano in modo apprezzabile il valore della cosa, in aderenza alla norma generale di cui all’art. 1455 c.c., secondo cui l’inadempimento non deve essere di scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse del creditore. Pertanto la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto di appalto è ammessa nella sola ipotesi in cui l’opera, considerata nella sua unicità e complessità, sia assolutamente inadatta alla destinazione sua propria in quanto affetta da vizi che incidono in misura notevole – sulla struttura e funzionalità della medesima sì da impedire che essa fornisca la sua normale utilità, mentre se i vizi e le difformità sono facilmente e sicuramente eliminabili, il committente può solo richiedere, a sua scelta, uno dei provvedimenti previsti dal primo comma dell’art. 1668 c.c., salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell’appaltatore. A tal fine, la valutazione delle difformità o dei vizi deve avvenire in base a criteri obiettivi, ossia considerando la destinazione che l’opera riceverebbe dalla generalità delle persone, mentre deve essere compiuta con criteri subiettivi quando la possibilità di un particolare impiego o di un determinato rendimento siano dedotti in contratto. E incombe al committente l’onere probatorio in ordine alla sussistenza dei vizi dedotti a fondamento della domanda di risoluzione del contratto di appalto, mentre compete all’appaltatore addurre l’esistenza di eventuali cause che impediscano al committente di far valere il suo diritto.
5. Consulenza e assistenza legale per il tuo caso
Come avrai notato, la disciplina prevista in relazione alla risoluzione del contratto di appalto decisamente complessa poiché occorre valutare molti elementi.
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