Lite temeraria: come difendersi

La lite temeraria è un illecito civile, definito all’art. 96 c.p.c., che per lungo tempo è stato oggetto di trattazione nelle aule di tribunale, ove non di rado si assiste ad abusi dello strumento processuale.

La sovrabbondanza di ricorsi all’autorità giudiziaria ha causato, soprattutto in tempi relativamente recenti, il delinearsi di una peculiare figura di illecito, la c.d. lite temeraria. Con ciò generalmente si intende un’azione legale esperita in mala fede, ossia con la consapevolezza della sua infondatezza o del possibile esito negativo. Le cause, dietro un tal tipo di condotta, possono essere molteplici, sebbene sovente la parte attrice agisce con meri intenti dilatatori o defatigatori.

Disciplinata all’art. 96 c.p.c., esso può produrre ingenti danni, soprattutto di natura patrimoniale, a carico del soggetto del convenuto. Tuttavia, riconoscere tale prassi, quindi azionare i relativi strumenti di tutela, non sembra sempre di facile intuizione.

1. Cosa si intende per lite temeraria?

L’art. 96 c.p.c. disciplina una peculiare forma di responsabilità civile aggravata. In specie, con essa il legislatore ha inteso reprimere due forme di abuso del mezzo processuale, al fine di prevenire, non solo danni alla controparte processuale, ma tutelare l’interesse generale al buon andamento della macchina giudiziaria. Infatti, il ricorso a processi infruttuosi, non solo implica un dispendio di risorse economiche, ma causa un ingiustificato impasse dell’attività di amministrazione di giustizia, provocando un allungamento dei tempi processuali.

Le tipologie di condotte represse dalla norma in questioni sono, quindi, due:

  • il comma 1 disciplina la condotta di chi agisce in giudizio nella consapevolezza, o versando in uno stato di ignoranza ingiustificato, dell’infondatezza della propria pretese;
  • il comma 2, invece, prevede l’ipotesi in cui la parte sia ricorsa a strumenti cautelari, senza valutare l’azione con la normale prudenza.

Le fattispecie, così descritte, determinano l’insorgere di una responsabilità civile, per l’appunto aggravata, a carico del soggetto che pone in essere la lite temeraria.

2. Gli elementi costitutivi della lite temeraria

La fattispecie della lite temeraria, come più volte già asserito, costituisce un’ipotesi di illecito civile, la quale, quindi, deve presentare gli ordinari elementi contemplati all’art. 2043 c.c., al fine di garantire il risarcimento danni. E’, però, opportuno sottolineare che la disciplina è espressamente rintracciabile nell’art. 96 c.p.c., che non concorre con la norma predetta e da essa si differenzia per alcuni specifici elementi.

Nel nostro ordinamento, invero, vige il principio in base al quale ognuno è tenuto dall’astenersi da condotte, siano esse attive od omissive, tali che possano pregiudicare un interesse altrui. Questa regola è contenuta proprio nell’art. 2043 c.c., il quale sanziona ogni condotta riprovevole, volontaria o dettata da negligenza, imprudenza od imperizia, che violi una regola di convivenza civile e i principi dell’ordinamento.

Da ciò consegue che, i presupposti per far valere l’illecito sono essenzialmente desumibili dalla stessa disciplina sulla responsabilità civile, come disciplinata all’art. 96 c.p.c.. La condanna, in questo caso aggravata, presuppone preliminarmente l’elemento soggettivo, del dolo o della colpa grave, dell’agente. Differentemente da quanto disposto dall’art. 2043 c.c., è esclusa la responsabilità ove sia rintracciabile colpa lieve.

Sarà, allora, necessario fornire la prova sia del danno, sia dell’elemento psicologico. La persona pregiudicata è tenuta ad accertamento della lesione patita, nonché del pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale, conseguente la condotta illecita. Inoltre, per quanto attiene all’elemento soggettivo, dovrà inequivocabilmente trasparire la consapevolezza o dell’ignoranza colpevole circa l’esito negativo del giudizio temerario.

Ultimo elemento, che la parte lesa è tenuta a provare, è il nesso di causalità. Il risarcimento danni è, infatti, accordato ove sia espressamente affermato che il danno sia stato causato dalla condotta del presunto autore dell’illecito.

3. Competenza e sede del giudizio

L’istanza risarcitoria per lite temeraria deve essere presentata allo stesso giudice di merito, innanzi al quale pende il giudizio, presuntivamente infondato. Quindi, la decisione sul danno deve essere presa dall’ambito del medesimo procedimento, causativo dello stesso.

Il giudice non potrà procedere ad una generica condanna, ma alla specifica liquidazione. Ove correttamente motivato, la decisione non può essere impugnata o passibile di giudizio di legittimità.

La richiesta di risarcimento potrebbe esser presentata per la prima volta anche direttamente in Cassazione.

L’art. 96 c.p.c., che disciplina interamente la vicenda civilistica, ammette la proponibilità dell’istanza anche nelle fasi incidentali del giudizio, purché possa concludersi con una decisione e con condanna alle spese. Sono esclusi, di conseguenza, tutti quei giudizi che presuppongono un mero accertamento.

La norma trova applicazione, ad esempio, nel procedimento fallimentare, laddove si concluda con revoca della stessa procedura. Mentre non troverà attuazione nei procedimento per il risarcimento del danno, derivante da sequestro penale.

4. Liquidazione del danno da lite temeraria

Offerta la prova del danno, il giudice dovrà procedere alla relativa liquidazione.

L’ autorità giudiziaria è chiamata ad individuare l’ammontare effettivo del pregiudizio, tenendo conto di alcuni specifici elementi, già oggetto di prova. Egli constaterà preliminarmente la gravità dell’abuso perpetrato, l’intensità del dolo e l’incidenza della condotta sulla durata del processo.

Ai sensi dell’art. 96 c.p.c. il giudice potrà poi decidere di quantificare il danno in via equitativa, ove questo non sia provato nell’effettivo ammontare e rispetto ad ogni sua voce. In tal modo l’autorità eseguirà un giudizio di valutazione, al fine di vagliare ogni elemento, secondo le nozioni e le massime di comune esperienza.

5. Chi è tenuto al risarcimento?

In primis è tenuto al risarcimento l’autore della condotta illecita. Tuttavia recente giurisprudenza ha ampliato il novero dei soggetti chiamati a reintegrare la persona lesa (Cass. Ord., setenza n. 15209 del 12 giugno 2018).

Secondo la giurisprudenza, infatti, anche il rappresentante legale è responsabile dell’illecito ex art. 96 c.p.c., in quanto allo stesso è devoluto il “sacro” compito di tutelare il buon andamento dell’amministrazione della giustizia. Il professionista forense dovrebbe operare un bilanciamento degli interessi concorrenti, ossia quello del proprio assistito e l’interesse del sistema giudiziario in quanto tale. Ciò è richiesto anche a costo di ridimensionare l’azione difensiva, andando anche a discapito di un proprio personale tornaconto economico.

In tal contesto, la Cassazione ha, evidenziato, la natura anche punitiva dell’illecito per lite temeraria. Invero, il nostro ordinamento non accoglie espressamente predetta funzione sanzionatoria dell’illecito civile. Tuttavia, a detta dell’interprete, essa non è ontologicamente incompatibile con il sistema nazionale, potendo ragionevolmente convivere con la funzione compensativa.

Quindi, al fine di creare strumenti dissuasivi, che disincentivino il proliferare di fenomeni distorsivi, la giurisprudenza ammette la responsabilità anche del professionista forense.

Sostiene, allora, la Corte che una condotta connivente dell’intento deflattivo dell’attore, può esser desunta da ricorsi basati su motivi manifestamente incoerenti, non autosufficienti o contenenti una mera richiesta di rivalutazione nel merito.

6. Chi può esser risarcito?

Ovviamente destinatario del risarcimento è lo stesso convenuto del giudizio temerario, il quale ha subito l’illecito. Tuttavia anche sul punto è stato ampliato l’elenco dei soggetti risarcibili, in questo caso, proprio ad opera del legislatore.

Come poc’anzi specificato, la condotta lesiva produce un rilevante pregiudizio, non solo a carico del soggetto contro cui è stata esercitata l’azione, ma anche ai danni della giustizia. Con ciò, invero, si fa riferimento agli effetti distorsivi prodotti sulla macchina giudiziaria. L’allungamento dei tempi di un procedimento conduce a rilevanti conseguenze sia in termini economici, sia di gestione stessa del carico lavoro.

La lite temeraria genera, per l’appunto, proprio quel fenomeno di ingolfamento del sistema giustizia, che si intende prevenire.

Con il DDL n. 1662 del 2019, che ha ad oggetto la riforma del processo civile, il legislatore ha espressamente previsto la possibilità di risarcire i danni anche all’amministrazione della Giustizia. La norma, contemplata nell’articolo che disciplina la collaborazione dei terzi, prevede la condanna al risarcimento danni a favore della Cassa ammende. Sono, altresì, previste, sanzioni pecuniarie per chi rifiuta, senza giusta causa, di consentire l’ispezione di cui all’articolo 118 c.p.c., nonché per coloro che non adempiono all’ordine di esibizione di cui all’articolo 210 c.p.c.

7. Come si ottiene il risarcimento?

Come poc’anzi asserito, l’istanza di risarcimento danni per lite temeraria deve esser necessariamente fatta valere nel medesimo giudizio di merito, instaurato ai danni del convenuto. Sembra, allora, indispensabile che sussista l’iniziativa della stessa parte lese, al fine di far valere un proprio diritto.

Tuttavia, è ormai pacifico che il giudice, in sede di liquidazione delle spese, può condannare d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una somma determinata in via equitativa. Questa sarà imputata come risarcimento del danno derivante dalla controversia, in linea con quanto disposto all’art. 91 c.p.c..

Tale voce costituisce, invero, una sanzione pubblicistica autonoma ed indipendente da quella prevista all’art. 96 c.p.c., da questa differenziandosi per gli elementi costitutivi. Infatti, non sarà necessaria la prova dell’elemento soggettivo, ma semplicemente del carattere pretestuoso dell’azione giudiziaria. Ove, il giudice riscontri che l’agente non potesse vantare alcuna plausibile ragione a sostegno della propria posizione attorea, procede a predetta condanna.

La norma di cui all’art. 96 c.p.c. sembra prevedere una retribuzione per l’oggettiva esistenza dell’abuso del processo, fornendo, da un lato, ulteriore ristoro alla parte, dall’altro garantendo uno strumento per disincentivare distorsioni e alterazioni del procedimento ordinario di cognizione.

8. La giurisprudenza rilevante della Corte di Cassazione in materia di lite temeraria

Cass. civ. Sez. II Ord., 06/06/2022, n. 18036.

Il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, di cui all’art. 96 c.p.c., a fronte dell’integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configura un’ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, né in primo grado né in appello, sicchè non può giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell’art. 92 c.p.c.(In applicazione di detto principio la Corte, confermando la sentenza impugnata, ha ritenuto che il pieno accoglimento in favore della odierna parte resistente della domanda di usucapione rispetto al rigetto di quella per lite temeraria fa escludere la contrapposizione di una pluralità di domande tale da giustificare la reciproca soccombenza).

Cass. civ. Sez. VI – 3 Ord., 18/03/2022, n. 8943.

In tema di responsabilità aggravata, il terzo comma dell’art. 96 c.p.c., aggiunto dalla l. n. 69 del 2009, disponendo che il soccombente può essere condannato a pagare alla controparte una “somma equitativamente determinata”, non fissa alcun limite quantitativo, né massimo, né minimo, al contrario dell’art. 385, comma 4, c.p.c., che, prima dell’abrogazione ad opera della medesima legge, stabiliva, per il giudizio di cassazione, il limite massimo del doppio dei massimi tariffari. Pertanto, la liquidazione in concreto della somma in via equitativa rientra nel potere discrezionale del giudice e non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità, quando la motivazione dia adeguatamente conto del processo logico e valutativo seguito.

Cass. civ. Sez. VI – 2 Ord., 04/03/2022, n. 7222.

L’accertamento della responsabilità aggravata, che ricorre quando la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, rientra nei compiti del giudice del merito e non è censurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato.

Cass. civ. Sez. VI – 2 Ord., 18/02/2022, n. 5459.

La condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. non comporta automaticamente la revoca “ex tunc” dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, in quanto il provvedimento di revoca del beneficio, seppur pronunciato all’interno del provvedimento di merito, anziché con separato decreto come previsto dall’art. 136 del d.P.R. n. 115 del 2002, deve essere sempre considerato autonomo e soggetto al separato regime di impugnazione di cui all’art. 170 del medesimo d.P.R.. Spetta, quindi, al giudice della revoca motivare autonomamente in ordine alla insussistenza dei presupposti per l’ammissione ovvero se l’interessato abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave.

Cass. civ. Sez. III Ord., 11/02/2022, n. 4430.

In tema di responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, c.p.c., costituisce indice di mala fede o colpa grave – e, quindi, di abuso del diritto di impugnazione – la proposizione di un ricorso per cassazione senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria iniziativa processuale o, comunque, senza compiere alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione, con criteri e metodo di scientificità, il diritto vivente o la giurisprudenza consolidata, sia pure solo con riferimento alla singola fattispecie concreta. (In applicazione del principio, la S.C., nell’esame di un ricorso per cassazione basato su tesi giuridiche contrastanti frontalmente con inequivoche previsioni normative, ha pronunciato d’ufficio la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. del ricorrente, da reputarsi, alternativamente, consapevole dell’infondatezza dell’impugnazione o, comunque, privo della diligenza necessaria per acquisire tale consapevolezza).

Cass. civ. Sez. II Ord., 06/12/2021, n. 38528.

Nel giudizio di cassazione, ai fini della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. può costituire abuso del diritto all’impugnazione la proposizione di un ricorso basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata o completamente privo dell’autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia ovvero fondato sulla deduzione del vizio di cui all’art. 360, comma , n. 5 c.p.c., ove sia applicabile, “ratione temporis”, l’art. 348 ter, comma 5, che ne esclude l’invocabilità.

Cass. civ. Sez. III Ord., 30/09/2021, n. 26545.

La condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. richiede un accertamento – da effettuarsi caso per caso e in base al parametro indefettibile della correttezza, distinto da quella della lealtà – dell’esercizio ad opera della parte soccombente delle sue prerogative processuali in modo abusivo, cioè senza tener conto degli interessi confliggenti in gioco, sacrificandoli ingiustificatamente o sproporzionatamente in relazione all’utilità effettivamente conseguibile, da desumersi in termini oggettivi dagli atti del processo o dalle condotte processuali e senza che il giudizio sulla antigiuridicità della condotta processuale possa farsi derivare automaticamente dal rigetto della domanda o dalla inammissibilità o dall’infondatezza della impugnazione. (In applicazione di tale principio la Corte ha cassato senza rinvio la sentenza d’appello che aveva condannato le ricorrenti per responsabilità aggravata, limitandosi a richiamare le ragioni che avevano giustificato il rigetto dell’appello ed invocando l’uso strumentale e dilatorio del mezzo di impugnazione, in una fattispecie in cui le ricorrenti, dopo l’esito della querela di falso, avevano rinunciato a parte delle proprie domande e in cui l’appello era stato rigettato per difetto di prova, dopo la reiezione delle loro istanze istruttorie).

Cass. civ. Sez. Unite Ord., 16/09/2021, n. 25041.

L’accertamento della responsabilità aggravata, ex art. 96 c.p.c., discende esclusivamente da atti o comportamenti processuali concernenti il giudizio nel quale la domanda viene proposta, quali, ai sensi del comma 1, l’aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave o, per quanto riguarda il comma 3, l’aver abusato dello strumento processuale. (Nella specie, la S.C. ha escluso la mala fede o colpa grave, nell’introduzione di un ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione, in considerazione della atipicità del provvedimento impugnato e della mancanza di precedenti giurisprudenziali sulla questione, ritenendo per contro irrilevanti le condotte extraprocessuali e le iniziative processuali della parte diverse dalla proposizione di tale ricorso).

Cass. civ. Sez. III Ord., 31/05/2021, n. 15102.

In tema di liquidazione delle spese di lite, la proposizione di un motivo d’appello relativo alla pronuncia in primo grado della condanna per lite temeraria introduce una specifica censura, il cui accoglimento, in conseguenza dell’effetto devolutivo, genera soccombenza (parziale, se ricorrono altri motivi, non accolti) della controparte e può giustificare la compensazione, anche integrale, dei costi del giudizio ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c.

Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 15/02/2021, n. 3830.

La condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c., e con queste cumulabile, volta alla repressione dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro non dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’avere agito o resistito pretestuosamente. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito, che aveva ravvisato un’ipotesi di abuso del processo nella condotta processuale della parte che aveva adito sia il giudice amministrativo che il giudice ordinario per ottenere l’inserimento nelle graduatorie ad esaurimento dei docenti in virtù del possesso del diploma magistrale, senza considerare che, all’epoca della domanda, la questione era controversa non solo nel merito ma anche in relazione alla giurisdizione).

Cass. civ. Sez. VI – 1 Ord., 04/09/2020, n. 18512.

In tema di responsabilità aggravata, ex art. 96, comma 3 c.p.c., costituisce abuso del diritto di impugnazione, integrante colpa grave, la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, in ordine a ragioni già formulate nell’atto di appello, espresse attraverso motivi inammissibili, poiché pone in evidenza il mancato impiego della doverosa diligenza ed accuratezza nel reiterare il gravame ( La S.C. ha ritenuto la ricorrenza di tale ipotesi con riguardo alla formulazione di un motivo ricondotto ad una norma abrogata da lungo tempo e di un altro motivo estraneo al contenuto della decisione impugnata).

Cass. civ. Sez. VI – 1 Ord., 17/07/2020, n. 15333.

Sussiste la responsabilità aggravata del ricorrente, ex art. 96, comma 3, c.p.c., per la redazione da parte del suo difensore di un ricorso per cassazione contenente motivi del tutto generici ed indeterminati, in violazione dell’art. 366 c.p.c., rispondendo il cliente delle condotte del proprio avvocato, ex art. 2049 c.c., ove questi agisca senza la diligenza esigibile in relazione ad una prestazione professionale particolarmente qualificata, quale è quella dell’avvocato cassazionista. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile un ricorso per cassazione, che si limitava a ripetere l’atto di citazione in appello, a sua volta riproducente la comparsa conclusionale del primo grado).

Cass. civ. Sez. II Ord., 26/05/2020, n. 9762.

In tema d’irragionevole durata del processo, l’ipotesi di abuso del processo di cui all’art. 2, comma 2 quinquies, della l. n. 89 del 2001, non esaurisce l’incidenza della temerarietà della lite sul diritto all’equa riparazione, essendo consentito al giudice di pervenire a tale giudizio in base al proprio apprezzamento; ne consegue che il giudice del procedimento “ex lege” n. 89 del 2001 può valutare anche ipotesi di temerarietà che per qualunque ragione nel processo presupposto non abbiano condotto ad una pronuncia di condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c.

Cass. civ. Sez. VI – 3 Ord., 18/11/2019, n. 29812.

La condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c., e con queste cumulabile, volta alla repressione dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’avere agito o resistito pretestuosamente.

Cass. civ. Sez. III Ord., 04/07/2019, n. 17902.

In tema di responsabilità aggravata, la determinazione equitativa della somma dovuta dal soccombente alla controparte in caso di lite temeraria non può essere parametrata all’indennizzo di cui alla legge n. 89 del 2001 – il quale, ha natura risarcitoria ed essendo commisurato al solo ritardo della giustizia, non consente di valutare il comportamento processuale del soccombente alla luce del principio di lealtà e probità ex art. 88 c.p.c., laddove la funzione prevalente della condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. è punitiva e sanzionatoria -, potendo essere calibrata su una frazione o un multiplo delle spese di lite con l’unico limite della ragionevolezza.

Cass. civ. Sez. II Ord., 14/01/2019, n. 595.

Sebbene sia consolidato il principio secondo cui il diritto all’equa riparazione di cui all’art. 2 della legge n. 89 del 2001 compete a tutte le parti del processo, indipendentemente dall’esito del giudizio presupposto, deve tuttavia rilevarsi che il patema da ritardo nella definizione del processo è da escludersi allorché la parte rimasta soccombente, consapevole dell’inconsistenza delle proprie istanze, abbia proposto una lite temeraria, difettando in questi casi la stessa condizione soggettiva di incertezza e, dunque, elidendosi il presupposto dello stato di disagio e sofferenza.

Cass. civ. Sez. Unite Sent., 13/09/2018, n. 22405.

La condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della “potestas agendi” con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, essendo tuttavia necessario l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell’infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza), venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello, che aveva escluso la condanna, nonostante l’artificiosa evocazione in giudizio di una parte, peraltro senza proporre domanda contro di essa, finalizzata a “bloccare” le azioni promosse all’estero, in quanto la pretestuosità sarebbe dovuta essere eccepita dalla stessa parte invece rimasta contumace).

Cass. civ. Sez. III Ord., 30/03/2018, n. 7901.

In tema di responsabilità aggravata, la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. presuppone l’accertamento di un fatto illecito, qual è l'”abuso del processo”, e richiede, pertanto, il necessario riscontro dell’elemento soggettivo della mala fede o della colpa.

Cass. civ. Sez. II, 06/02/2018, n. 2805.

In tema di responsabilità aggravata per lite temeraria, di natura extracontrattuale, la domanda di cui all’art. 96, comma 1, c.p.c., richiede pur sempre la prova, incombente sulla parte istante, sia dell'”an” e sia del “quantum debeatur”, o comunque postula che, pur essendo la liquidazione effettuabile di ufficio, tali elementi siano in concreto desumibili dagli atti di causa.

Cass. civ. Sez. I Sent., 26/01/2018, n. 2040.

In tema di condanna ex art. 96 c.p.c., integra la “colpa grave” – quale stato soggettivo che si concreta nel mancato doveroso impiego di quella diligenza che consenta di avvertire agevolmente l’ingiustizia della propria domanda – la proposizione di un ricorso per revocazione di una sentenza della Corte di cassazione ove si prospetti come vizio revocatorio un preteso “error in iudicando” commesso dalla Corte stessa, in presenza di una consolidata e costante giurisprudenza che esclude l’errore di giudizio dai vizi revocatori di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c. per le sentenze di legittimità.

Cass. civ. Sez. I Sent., 09/02/2017, n. 3464.

In tema di responsabilità processuale aggravata, il carattere temerario della lite, che costituisce presupposto della condanna al risarcimento dei danni, va ravvisato nella coscienza della infondatezza della domanda e delle tesi sostenute, ovvero nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta consapevolezza, non già nella mera opinabilità del diritto fatto valere. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che non aveva riconosciuto gli estremi della responsabilità ex art. 96 c.p.c. nella condotta difensiva dell’opponente, che si era conformato all’orientamento della giurisprudenza costituzionale e di legittimità al momento di introduzione del giudizio).

Cass. civ. Sez. VI – 2 Sent., 12/01/2017, n. 665.

In tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, l’infondatezza della domanda nel giudizio presupposto non è, di per sé, causa ostativa al riconoscimento dell’indennizzo, all’uopo occorrendo che di tale infondatezza la parte abbia consapevolezza, originaria – allorché proponga una lite temeraria – o sopravvenuta, – ma prima che il processo superi il termine di durata ragionevole – come nel caso di consolidamento di un orientamento giurisprudenziale sfavorevole, di dichiarazione di infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata a fondamento della pretesa o di intervento legislativo di precisazione, in senso riduttivo, della portata della norma invocata.

Cass. civ. Sez. V Sent., 14/09/2016, n. 18057.

In tema di spese giudiziali, va condannata ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., aggiunto dalla legge n. 69 del 2009, la parte che non abbia adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione e comunque abbia agito senza aver compiuto alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione con criteri e metodo di scientificità la giurisprudenza consolidata ed avvedersi della totale carenza di fondamento del ricorso. (Nella specie, relativa a giudizio per omesso versamento dell’ICI in riferimento ad un’area destinata dal PRG a verde pubblico, anche attrezzato, in applicazione del suddetto principio, la parte è stata condannata al pagamento, in favore della controparte, delle spese del giudizio di legittimità in misura doppia).

Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 02/12/2015, n. 24526.

La condanna al risarcimento per lite temeraria prevista dall’art. 96, comma 1, c.p.c., presuppone sempre l’istanza di parte, anche nel caso richiamato dall’art. 152 disp. att. c.p.c.

Cass. civ. Sez. VI – 2 Sent., 11/03/2015, n. 4890.

In tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, il patema d’animo derivante dalla situazione di incertezza per l’esito della causa è da escludersi non solo ogni qualvolta la parte rimasta soccombente abbia proposto una lite temeraria, difettando in questi casi la stessa condizione soggettiva di incertezza sin dal momento dell’instaurazione del giudizio, ma anche quando la consapevolezza dell’infondatezza delle proprie pretese sia sopravvenuta prima che la durata del processo abbia superato il termine di durata ragionevole, come nel caso in cui si sia definitivamente consolidato un orientamento sfavorevole della giurisprudenza.

Cass. civ. Sez. I Sent., 27/08/2013, n. 19583.

La condanna al risarcimento dei danni a titolo di responsabilità aggravata per lite temeraria in sede di appello presuppone la totale soccombenza della parte in relazione all’esito del singolo grado di giudizio, aggiungendosi essa, ai sensi dell’art. 96, primo comma, cod. proc.civ., alla condanna alle spese, la quale è, invece, correlata all’esito finale della lite.

Cass. civ. Sez. III Sent., 16/04/2013, n. 9152.

L’accertamento della mala fede del creditore pignorante, per i fini di cui all’art. 96, comma secondo, cod. proc. civ., è devoluto al giudice dell’opposizione all’esecuzione, il quale nel compiere il relativo accertamento dovrà valutare la condotta tenuta dal creditore nel giudizio di esecuzione, e non in quello di opposizione, a meno che non venga invocata dall’opponente anche la responsabilità dell’opposto per avere in mala fede o colpa grave resistito al giudizio di opposizione all’esecuzione, ai sensi del primo comma della norma citata.

Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 15/04/2013, n. 9080.

In tema di responsabilità aggravata per lite temeraria, che ha natura extracontrattuale, la domanda di cui all’art. 96, primo comma, cod. proc. civ. richiede pur sempre la prova, incombente sulla parte istante, sia dell'”an” e sia del “quantum debeatur”,o comunque postula che, pur essendo la liquidazione effettuabile di ufficio, tali elementi siano in concreto desumibili dagli atti di causa.

Cass. civ. Sez. III Sent., 04/04/2013, n. 8197.

Nel procedimento innanzi al giudice di pace, quando una controversia abbia ad oggetto un credito contenuto nei limiti del giudizio di equità, la relativa sentenza è impugnabile – secondo il regime processuale anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, nella specie applicabile “ratione temporis” – con il ricorso per cassazione e non con l’appello, senza che assuma rilievo il fatto che sia stata avanzata domanda riconvenzionale di condanna per lite temeraria ex art. 96 cod. proc. civ., perché essa attiene al regolamento delle spese processuali senza incidere sul valore della controversia, che resta contenuto nel limite entro il quale il giudice di pace decide secondo equità, ai sensi dell’art. 113, secondo comma, cod. proc. civ., con conseguente ricorribilità della decisione di primo grado direttamente in cassazione.

Cass. civ. Sez. V Sent., 27/02/2013, n. 4925.

In tema di responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., non vi è alternatività, ma cumulabilità tra le domande disciplinate dal primo e terzo comma, essendo esse basate su presupposti parzialmente differenti, sicché il giudice, sussistendone le condizioni, può pronunciare condanna applicando entrambe le disposizioni di legge, pur dovendo evitare di ristorare il medesimo pregiudizio due volte.

Cass. civ. Sez. V Sent., 27/02/2013, n. 4925.

La domanda di risarcimento per responsabilità aggravata, di cui all’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ., che può essere riconosciuta d’ufficio dal giudice con condanna del soccombente a somma anche determinata in via equitativa, può essere proposta dalle parti anche nel giudizio di legittimità, essendo stato abrogato dall’art. 46, comma 20, della legge 18 giugno 2009, n. 69 il terzo comma dell’art. 385 cod. proc. civ., già previsto per tale giudizio e fondato sui medesimi presupposti dell’art. 96, comma terzo, cod. proc. civ., con la specificazione dell’importo massimo liquidabile (non superiore al doppio dei massimi tariffari).

L’istanza di condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 cod. proc. civ. può essere proposta anche nel giudizio di legittimità per il risarcimento dei danni causati dal ricorso per cassazione, purché essa sia formulata nel controricorso con una prospettazione della temerarietà della lite riferita a tutti i motivi del ricorso, essendo altrimenti impedito alla Corte l’accertamento complessivo della soccombenza dolosa o gravemente colposa, la quale deve valutarsi riguardo all’esito globale della controversia e, quindi, rispetto al ricorso nella sua interezza.

Cass. civ. Sez. VI – 2 Ord., 30/11/2012, n. 21570.

In tema di responsabilità aggravata, il terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., aggiunto dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, disponendo che il soccombente può essere condannato a pagare alla controparte una “somma equitativamente determinata”, non fissa alcun limite quantitativo, né massimo, né minimo, al contrario del quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ., che, prima dell’abrogazione ad opera della medesima legge, stabiliva, per il giudizio di cassazione, il limite massimo del doppio dei massimi tariffari. Pertanto, la determinazione giudiziale deve solo osservare il criterio equitativo, potendo essere calibrata anche sull’importo delle spese processuali o su un loro multiplo, con l’unico limite della ragionevolezza. (Nella specie, in applicazione del principio, la S.C. ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito, che aveva condannato il soccombente a pagare una somma non irragionevole in termini assoluti e pari al triplo di quanto liquidato per diritti e onorari).

Cass. civ. Sez. VI – 1 Sent., 23/12/2011, n. 28592.

In caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui all’art. 2 della legge n. 89 del 2001 spetta a tutti i soggetti che ne siano parti, indipendentemente dal fatto che essi siano risultati vittoriosi o soccombenti, costituendo l’ansia e la sofferenza per l’eccessiva durata i riflessi psicologici del perdurare dell’incertezza in ordine alle posizioni coinvolte nel processo, ad eccezione del caso in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio in difetto di una condizione soggettiva di incertezza; dell’esistenza di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve dare prova puntuale l’Amministrazione, non essendo sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte poteva dirsi infondata per effetto di una sentenza della Corte costituzionale. (Fattispecie relativa a una richiesta di riconoscimento dell’indennità piena, prevista dall’art. 4, comma 3, della legge n. 724 del 1994, per l’esercizio della professione medica in relazione alla sentenza della Corte costituzionale n. 330 del 1999).

Cass. civ. Sez. VI – 3 Ord., 12/10/2011, n. 20995.

Il giudice nel liquidare la domanda di responsabilità per lite temeraria può ricorrere a massime di comune esperienza in relazione al riconoscimento di un pregiudizio immanente la mera circostanza di dover resistere ovvero di coltivare un contenzioso evitale per le altrui resistenze.

Cass. civ. Sez. VI – 3 Ord., 12/10/2011, n. 20995.

In tema di responsabilità aggravata per lite temeraria, l’art. 96 cod. proc. civ. prevede, nel caso di accoglimento della domanda, il risarcimento dei danni, da intendersi, quindi, come ampia formulazione letterale comprensiva sia del danno patrimoniale, che del danno non patrimoniale, quest’ultimo trovando giustificazione anche in ragione della qualificazione del diritto di azione e difesa in giudizio in termini di diritto fondamentale. Ne consegue che, sotto il profilo del danno patrimoniale, in assenza di dimostrazione di specifici e concreti pregiudizi derivati dallo svolgimento della lite, è legittima una liquidazione equitativa che abbia riguardo allo scarto tra le spese determinate dal giudice secondo le tariffe e quanto dovuto dal cliente in base al rapporto di mandato professionale; mentre, sotto il profilo del danno non patrimoniale, la liquidazione equitativa deve avere riguardo alla lesione dell’equilibrio psico-fisico che, secondo nozioni di comune esperienza (anche in forza del principio della ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost. ed alla legge 24 marzo 2001, n. 89), si verifichi a causa di ingiustificate condotte processuali.

Cass. civ. Sez. III, 23/08/2011, n. 17485.

L’istanza volta al risarcimento dei danni derivanti da lite temeraria è suscettibile di accoglimento anche nelle ipotesi in cui debba rilevarsi la omessa deduzione e dimostrazione dello specifico pregiudizio subito dalla parte vittoriosa e costituito non già dalla lesione della propria posizione materiale, bensì dagli oneri di ogni genere necessariamente affrontanti per contrastare l’avversa ingiustificata iniziativa e dei disagi affrontati a causa della stessa.

Cass. civ. Sez. III Sent., 23/08/2011, n. 17523.

Non è configurabile un concorso tra l’azione generale risarcitoria, di cui all’art. 2043 cod. civ., e quella speciale di risarcimento del danno per responsabilità processuale aggravata, ai sensi dell’art. 96, secondo comma, cod. proc. civ., il quale disciplina, tra l’altro, la responsabilità del creditore che abbia iniziato o compiuto l’esecuzione forzata in relazione ad un diritto inesistente. In questa ipotesi, diversamente da quanto stabilito dal primo comma della citata norma processuale, è sufficiente il difetto della normale prudenza del creditore; pertanto, il giudice, investito della domanda di risarcimento del danno che si assuma derivante dal mantenimento in vita di un’azione esecutiva immobiliare, deve accertare che il titolo esecutivo sia venuto meno e che il creditore abbia agito nel corso dell’intero processo esecutivo senza rispettare la regola della normale prudenza, la quale si identifica anche con la colpa lieve.

Cass. civ. Sez. II Sent., 17/06/2011, n. 13387.

Qualora una controversia promossa davanti al giudice di pace abbia ad oggetto un credito contenuto nei limiti del giudizio di equità, la relativa sentenza – nel regime processuale anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, applicabile “ratione temporis” – è impugnabile con il ricorso per cassazione e non con l’appello, senza che assuma rilievo il fatto che il credito sia parte di uno maggiore eccedente i limiti del giudizio di equità, atteso che la competenza per valore si determina in base alla parte del rapporto che è in contestazione; né a diversa conclusione può giungersi per il fatto che sia stata avanzata domanda di condanna per lite temeraria ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., poiché essa attiene al regolamento delle spese e non incide, quindi, sul valore della controversia.

Cass. civ. Sez. VI – 3 Ord., 17/05/2011, n. 10846.

La norma di cui al terzo comma, dell’art. 96 cod. proc. civ., introdotto dall’art. 45 della legge 18 giugno 2009, n. 69, è applicabile – atteso il disposto della norma transitoria di cui all’art. 58, primo comma, legge cit. – soltanto ai giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore e, pertanto, esso non trova applicazione al regolamento di competenza proposto, ancorché dopo l’entrata in vigore della legge, avverso un provvedimento reso nell’ambito del giudizio di merito a quella data già pendente, in quanto il regolamento di competenza si innesta nell’ambito del processo e costituisce un procedimento incidentale di impugnazione.

Cass. civ. Sez. I, 24/02/2011, n. 4550.

In caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, che il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, costituendo l’ansia e la sofferenza per l’eccessiva durata i riflessi psicologici del perdurare dell’incertezza in ordine alle posizioni coinvolte nel processo, ad eccezione del caso in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui all’art. 2 della L. n. 89 del 2001, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza.

Cass. civ. Sez. I Sent., 30/07/2010, n. 17902.

La facoltà, concessa dall’art. 96 cod. proc. civ., nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla legge n. 69 del 2009, di liquidare d’ufficio il danno da responsabilità aggravata risponde al criterio generale di cui agli art. 1226 e 2056 cod. civ., senza alcuna deroga all’onere di allegazione degli elementi di fatto idonei a dimostrarne l’effettività: tale facoltà, invero, non trasforma il risarcimento in una pena pecuniaria, né in un danno punitivo disancorato da qualsiasi esigenza probatoria, restando esso connotato dalla natura riparatoria di un pregiudizio effettivamente sofferto senza assumere invece, carattere sanzionatorio od afflittivo; tale interpretazione è, altresì, avvalorata dall’art. 45, comma 12, della legge 18 giugno 2009, n. 69, il quale ha aggiunto un terzo comma all’art. 96 cod. proc. civ., introducendo una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell’avversario.

Cass. civ. Sez. I, 26/04/2010, n. 9938.

In caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui all’art. 2 della legge n. 89 del 2001 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, costituendo l’ansia e la sofferenza per l’eccessiva durata i riflessi psicologici del perdurare dell’incertezza in ordine alle posizioni coinvolte nel processo, ad eccezione del caso in cui il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza. Dell’esistenza di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve dare prova puntuale l’Amministrazione, non essendo sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte – nella specie di richiesta di riconoscimento di un trattamento pensionistico – sia stata dichiarata manifestamente infondata.

Cass. civ. Sez. I, 09/04/2010, n. 8513.

In tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, la circostanza che la causa di merito sia configurabile come lite temeraria o che la parte abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il diritto all’equa riparazione, costituendo circostanze di abuso del processo e derogando alla regola secondo cui il diritto all’indennizzo è indipendente dall’esito del processo presupposto (art. 2 della legge 24 marzo 2001 n. 89), deve essere provata dall’Amministrazione resistente, anche con presunzioni, in modo che possa ritenersi accertata la assoluta consapevolezza dell’infondatezza della pretesa; l’Amministrazione non è tuttavia tenuta a dedurre formalmente le predette circostanze, non trattandosi di eccezione in senso stretto, per la quale la legge richiede espressamente che sia soltanto la parte a rilevare i fatti impeditivi; conseguentemente, se gli elementi rilevanti ai fini della prova di tali circostanze sono stati comunque ritualmente acquisiti al processo o attengono al notorio, gli stessi entrano a far parte del materiale probatorio che il giudice può liberamente valutare.

Cass. civ. Sez. I, 02/04/2010, n. 8179.

La sofferenza morale prodotta nelle parti dall’eccessivo protrarsi del processo va riconosciuta anche nel caso di lite promossa collettivamente, nel caso di specie in corrispondenza ad una rivendicazione di categoria di taglio sindacale, così come l’esito sfavorevole della lite non esclude il diritto all’equa riparazione per il ritardo, se non nei casi in cui sia ravvisabile un vero e proprio abuso del processo, configurabile allorquando risulti che il soccombente abbia promosso una lite temeraria o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire, con tattiche processuali di varia natura, il perfezionamento della fattispecie di cui alla legge n. 89 del 2001. Nè d’altra parte può gravarsi l’interessato di oneri di prova o specifica allegazione di circostanze a sostegno della deduzione del sofferto danno morale, incompatibili con la presunzione di sussistenza di tale danno.

Cass. civ. Sez. Unite Sent., 15/11/2007, n. 23726.

La domanda di condanna della controparte al risarcimento dei danni per malafede nel comportamento processuale (consistente, nella specie, nel frazionamento di un unico credito in molteplici domande giudiziali) deve qualificarsi come domanda di condanna per lite temeraria ai sensi dell’art. 96 cod.proc.civ. e, pertanto, attiene esclusivamente al profilo del regolamento delle spese processuali senza incidere sul valore della controversia. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto ammissibile il ricorso avverso la sentenza del giudice di pace pronunciata secondo equità in una controversia in cui la domanda principale, ove non sommata a quella di risarcimento danni per il comportamento processuale della controparte, si manteneva nei limiti fissati dall’art. 113 cod.proc.civ.).

Cass. civ. Sez. III Sent., 08/06/2007, n. 13395.

In tema di responsabilità aggravata per lite temeraria, che ha natura extracontrattuale, la domanda di cui all’art. 96 cod. proc. civ. – proponibile per la prima volta in sede di legittimità se concerne i danni che si riconnettono esclusivamente al giudizio di cassazione – richiede pur sempre – come nell’ipotesi in cui fosse stata già proposta nel giudizio di merito – la prova incombente alla parte istante sia dell'”an”, sia del “quantum debeatur” o che, pur essendo la liquidazione effettuabile d’ufficio, tali elementi siano in concreto desumibili dagli atti di causa.

Cass. civ. Sez. I, 29/03/2006, n. 7139.

In caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui all’art. 2 della legge n. 89 del 2001 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica ed importanza del giudizio, a meno che l’esito del processo presupposto non abbia un indiretto riflesso sull’identificazione, o sulla misura, del pregiudizio morale sofferto dalla parte in conseguenza dell’eccessiva durata della causa, come quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2, o comunque risulti la piena consapevolezza – incompatibile con l’ansia connessa all’incertezza sull’esito del processo – dell’infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità. Tuttavia, dell’esistenza di ciascuna di queste situazioni, costituenti abuso del processo e perciò comportanti altrettante deroghe alla regola posta dalla norma, secondo il generale principio dell’art. 2697 cod. civ., deve dare prova la parte che la eccepisce per negare la sussistenza dell’indicato pregiudizio, dovendo altrimenti ritenersi che esso si verifica di regola come conseguenza della violazione stessa e non abbisogna di essere provato sia pure attraverso elementi presuntivi. (Nella specie, la S.C. ha cassato il decreto della corte di appello, che aveva respinto la domanda per difetto di prova del pregiudizio non patrimoniale, nonostante l’Amministrazione convenuta non avesse neppure prospettato la sussistenza di alcuna delle suddette eccezioni).

Cass. civ. Sez. I, 28/10/2005, n. 21088.

In caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui all’art. 2 della legge n. 89 del 2001 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, e dalla consistenza economica o dall’importanza sociale della vicenda, a meno che l’esito del processo presupposto non abbia un indiretto riflesso sull’identificazione, o sulla misura, del pregiudizio sofferto dalla parte in conseguenza dell’eccessiva durata della causa, come quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire l’irragionevole durata di esso, o comunque quando risulti la piena consapevolezza dell’infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità; di tutte queste situazioni, comportanti abuso del processo e perciò costituenti altrettante deroghe alla regola della risarcibilità della sua irragionevole durata, deve dare prova la parte che le eccepisce per negare la sussistenza dell’indicato danno, dovendo altrimenti ritenersi che esso si verifica di regola come conseguenza della violazione stessa, e che non abbisogna di essere provato neppure a mezzo di elementi presuntivi.(Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda perchè il pregiudizio non patrimoniale non era stato dimostrato, e per la scarsa consistenza economica della materia del contendere).

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