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“La pensione di reversibilità costituisce un diritto che sorge in capo al coniuge e ai figli superstiti che si trovino nelle condizioni stabilite dalla legge”.
L’assegno familiare è invece, una “prestazione a sostegno delle famiglie dei lavoratori dipendenti e dei pensionati da lavoro dipendente, i cui nuclei familiari siano composti da una o più persone e il cui reddito complessivo familiare sia al di sotto delle fasce reddituali stabilite di anno in anno dalla legge”.
È quanto si legge nell’ultima ordinanza della Sesta Sezione Civile della Cassazione n. 1264 del 13 maggio 2019 che fornisce importanti chiarimenti anche in ordine al concetto di “inabilità” al lavoro, valida sia per il riconoscimento del diritto alla relativa pensione, alla pensione di reversibilità, nonché ai fini del diritto agli assegni al nucleo familiare.
La vicenda
Il Tribunale di Lecce aveva rigettato l’istanza proposta dalla ricorrente, volta ad ottenere l’assegno per il nucleo familiare sulla pensione diretta per la figlia maggiorenne inabile, nonché il riconoscimento della contitolarità con la medesima della pensione di reversibilità, con conseguente condanna dell’Inps alle relative prestazioni.
Quest’ultima domanda era stata rigettata dal momento che – a detta del Tribunale – la ricorrente non aveva la legittimazione attiva ad agire per conto della figlia, trattandosi di persona maggiorenne e priva di apposito provvedimento di nomina quale sua tutrice o curatrice; allo stesso tempo, la prima istanza era stata ritenuta priva di fondamento posto che la figlia non era in condizione di totale inabilità: il c.t.u. le aveva riconosciuto una riduzione della capacità di lavoro nella misura del 93%.
Esito diverso in appello ove entrambe le istanze furono accolte. Quindi la pronuncia della Cassazione su ricorso dell’Inps.
Tra gli altri motivi, l’istituto di previdenza denunciava la decisione della corte territoriale perché pronunciata senza aver previamente accertato in concreto, il possesso in capo alla ricorrente delle condizioni reddituali necessarie per l’insorgenza del diritto all’assegno per nucleo familiare.
L’istanza inoltre, era inammissibile dal momento che solo l’interessata l’avrebbe potuta porre in essere, non avendo la madre poteri di rappresentanza della figlia.
Al riguardo, i giudici della Cassazione hanno accolto il ricorso rilevando la violazione dell’art. 81 c.p.c., a norma del quale “nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge”.
«Tale norma comporta la verifica, anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, e in via preliminare al merito, della coincidenza dell’attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, siano destinatari degli effetti della pronuncia richiesta» (Cass. S.U. 09/02/2012, n. 1912; Cass. 08/08/2012, n. 14243; Cass. 06/12/2018, n. 31574).
Il diritto alla pensione di reversibilità
A norma del R.D.L. n. 636 del 1939, art. 13, convertito in L. n. 1272 del 1939, risulta che la pensione di reversibilità spetti al coniuge e ai figli superstiti che, al momento della morte del pensionato dell’assicurato, non abbiano superato l’età di 18 anni e ai figli di qualunque età riconosciuti inabili al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso di questi.
La pensione di reversibilità costituisce dunque, un diritto che sorge in capo al coniuge e ai figli superstiti che si trovino nelle condizioni stabilite dalla legge, ciascuno dei quali è titolare del diritto per la quota di specifica spettanza ed è, dunque, legittimato a far valere tale diritto in giudizio, non ricorrendo alcuna ipotesi di sostituzione processuale (art. 81 c.p.c.), neppure nel caso realizzatosi nella vicenda in esame.
L’assegno per il nucleo familiare
L’assegno per il nucleo familiare è stato istituito con il D.L. 13 marzo 1988, n. 69, art. 2, convertito con modificazioni nella L. 13 maggio 1988, n. 153.
Si tratta di una prestazione a sostegno delle famiglie dei lavoratori dipendenti e dei pensionati da lavoro dipendente, i cui nuclei familiari siano composti da una o più persone e il cui reddito complessivo familiare sia al di sotto delle fasce reddituali stabilite di anno in anno dalla legge.
La disciplina contenuta nel D.L. 13 marzo 1988, n. 69 cit., art. 2, comma 3, fa espresso rinvio, per quanto non previsto, alle disposizioni del T.U. sugli assegni familiari, approvato con il D.P.R. 30 maggio 1955, n. 1124, lasciando in tal modo, in vigore la disciplina preesistente per quanto riguarda i presupposti oggettivi e le modalità di erogazione della prestazione, che assume a parametro per il riconoscimento del diritto, il reddito familiare.
Ebbene, secondo l’art. 2, comma 10 del D.L. n. 69 del 1988 “l’assegno non spetta se la somma dei redditi da lavoro dipendente, da pensione o da altra prestazione previdenziale derivante da lavoro dipendente è inferiore al settanta per cento del reddito complessivo del nucleo familiare”.
Ciò significa che qualora si agisca in giudizio per far valere il proprio diritto all’assegno per il nucleo familiare occorre provare non solo lo svolgimento effettivo dell’attività lavorativa, ma anche l’insussistenza della condizione ostativa appena citata.
La corte territoriale – a detta dei giudici Ermellini – aveva omesso di compiere tale accertamento. Sul punto perciò, la sentenza è stata cassata.
L’inabilità al lavoro
La vicenda in esame sollevava un ulteriore profilo di indagine: quello relativo cioè al destinatario della prestazione in questione (l’assegno familiare), che vede come unità di riferimento il nucleo familiare, che può essere composto dal richiedente lavoratore o titolare della pensione, dal coniuge che non sia legalmente ed effettivamente separato; dai figli ed equiparati di età inferiore a 18 anni, conviventi o meno, ovvero, senza limite di età, qualora si trovino, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, nell’assoluta e permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro.
Nella specie, l’ordinamento (la L. n. 222 del 1984) contempla un’unica ed unitaria nozione di “inabilità” che vale ad integrare il diritto sia alla relativa pensione, sia alla pensione di reversibilità, sia ai fini del diritto agli assegni familiari.
Sono quindi “inabili” alla stregua della L. n. 222 del 1984, artt. 2 e 8, contenenti identica dizione, “le persone che, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, si trovino nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa”.
Al riguardo, la Cassazione ha precisato che tale “assoluta e permanente impossibilità a svolgere qualsiasi attività lavorativa” deve essere determinata esclusivamente dalla infermità ovvero dal difetto fisico o mentale, non già da circostanze estranee alle condizioni di salute (in tal senso, Cass. n. 10953/2016, e Cass. n. 8678/2018).
Ebbene, anche su questo punto la decisione impugnata è stata cassata, avendo disatteso agli anzidetti principi e riconosciuto la prestazione pur in mancanza del necessario requisito sanitario, posto che in conformità al parere espresso dal c.t.u., era stata accertata una percentuale di inabilità della figlia del 93%.
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